The Jaartisan – in bottega con Massimo Alvito, copywriter

The Jaartisan – in bottega con Massimo Alvito, copywriter

The Jaartisan – in bottega con Massimo Alvito, copywriter
20 Settembre 2021 The Jaar

Massimo Alvito è un copywriter, il mestiere di chi scrive testi per la comunicazione, la pubblicità, il marketing. In realtà è un creatore di storie, un artigiano della parola di fede non ortodossa per via della sua familiarità con quattro lingue (di cui una non europea) e della sua esperienza a cavallo tra antropologia e design. Dopo una lunga formazione al DAMS di Bologna e all’EHESS di Parigi, Massimo ha trascorso anni di ricerca sul campo nelle mega-cities dell’estremo oriente, prendendo una brutta piega: il gusto cieco per il ramen, la passione sorda per il live recording, la nostalgia invasiva per i giochi di strada – tra cui la famigerata barduffola.

Abbiamo conosciuto Massimo sul campo attuale, quello dell’attività che svolgiamo in Fuoricentro Studio, nelle campagne di comunicazione dove ciò che fa la differenza è la capacità di visualizzare con le parole appropriate le sfide che si affrontano in termini di strategia, visione, creatività. Se da un lato bisogna ammettere che Massimo per certi versi non te lo manda a dire – il che è una qualità che bisogna saper apprezzare – dall’altro ciò che ha messo in moto una sintonia immediata con lui è la sua capacità di entrare in contatto con le cose e di raccontarle come se fossero le cose più naturali del mondo. In fondo con Massimo abbiamo in comune molto, oltre al gusto per il ramen: quell’energia invisibile che cerca e riconosce la bellezza nascosta in ogni cosa che facciamo.

Abbiamo incontrato Massimo nella sua fucina di parole alle Cure di Firenze, per cercare di capire cosa vuol dire amare scrivere per gli altri.

Qual è la parola che rappresenta meglio la tua attività?
Parola. È qualcosa di potentissimo, l’unità primitiva del senso, un segno in grado di rimandare a interi mondi; allo stesso tempo è qualcosa di cui si è perso il valore, usata spesso senza la consapevolezza che chi la usa ne è responsabile a tutti gli effetti e chi la dà è moralmente tenuto a mantenerla.

Qual è la materia su cui lavori?
La materia grigia, quella dove fioriscono i discorsi e pullulano le storie.

Com’è nata la passione per il tuo lavoro?
Forse quando avevo 15 anni. Gabriel Garcia Marquez, in Cent’anni di solitudine, mi raccontava allora di quando le persone iniziarono a dimenticare come si chiamano le cose e di come provvidero ad attaccare su ogni oggetto dei biglietti con su scritto il rispettivo nome. Credo che lì sia nato il primo germoglio della mia ossessione per la scrittura. Poi ho scoperto che il mio gusto per le strutture linguistiche – dell’italiano, dell’inglese, del latino, del greco – mi aveva dotato di una facilità nell’indagare il senso delle cose attraverso il pensiero verbale e di conseguenza con la scrittura. Questo mi ha portato al primo gesto copy: la creazione del pay-off di una multinazionale. Ma allora, seduto in un caffè di Seoul, non sapevo ancora che quello sarebbe stato l’inizio di un mestiere.

Da chi e come hai imparato la tua tecnica artigianale?
Per fare il copy bisogna conoscere almeno una lingua benissimo e altre due o tre abbastanza bene da poter shiftare dall’una all’altra senza problemi, per alimentare così la creazione di forme nuove, funzionali e creative insieme. I miei insegnanti sono stati i dizionari di inglese, francese, giapponese, dove mi sono perso per ore e giorni viaggiando lungo le derive del senso cross-culturale. Perché bisogna dire che non esistono scuole o maestri per questo mestiere, se non la curiosità che ti spinge a esplorare territori spesso sconosciuti, la volontà di perdercisi dentro per cercare quel qualcosa che ti serve ma non sai né dov’è né com’è, la capacità di riemergere con un bottino, un tesoro da trasformare nella costruzione di un “semplice” testo.

Quando e com’è nato il tuo brand?
Dopo 20 anni in un’agenzia da me fondata e diretta ho deciso di abbandonare le responsabilità dell’imprenditore e affidarmi alla leggerezza del freelance. In quel momento è nata l’idea del “cane sciolto”, un individuo in grado di affrontare in solitudine le avventure nel mondo della comunicazione.

Da dove deriva la scelta del nome del tuo brand?
INUNO sembra rappresentare l’unicità della mia attività, incarnata in me medesimo. In realtà traduce l’espressione “roba da cani” dal giapponese. L’icona che accompagna il nome INUNO (犬の) è un antico graffito giapponese raffigurante un essere che immaginiamo avere 4 zampe anche se nella sua bidimensionalità si presenta bipede. Si tratta di un simbolo che restituisce lo scarto tra rappresentazione e realtà, un’immagine che rivela il senso nascosto di ciò che raffigura. Mi piace vedere le cose per quello che appaiono essere e non per quello che presupponiamo siano.
Perché, visto da un altro punto di vista, un cane può averne 8 di zampe:
2 davanti;
2 dietro;
2 a sinistra;
2 a destra.

Cos’è per te la creatività?
Un mal di testa che ti porta a immaginare cose impossibili, a vedere cose che non ci sono, a fare quello che nessuno ti consiglierebbe di fare ma serve a fartelo passare.

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?
La misura dell’inadeguatezza davanti alla bellezza del mondo. Ovvero: dare un senso e raccontare – non risolvere – ciò che le persone non vedono dietro ciò che appare loro come un problema.

Quali sono (o sono state) le criticità e le difficoltà del tuo percorso?
Credere che comunicare e scrivere, raccontare e parlare siano attività positive e condivisibili, pratiche comprensibili e a portata di tutti. Niente di più falso: chi non sa comunicare non sopporta la chiarezza e la semplicità. L’ostacolo maggiore allora diventa affrontare quella inadeguatezza senza adottare strategie distruttive.

Parlaci dei tuoi prodotti. Dove trovi l’ispirazione per crearli?
Ovunque mi trovi, tutto intorno a me mi suggerisce che ciò che cerco in quel momento è alla mia portata, magari ancora dietro l’angolo, ma presto ci andrò dentro. Niente di meglio che smettere di pensare a quello che devo scrivere per iniziare a farlo. Questione di intimità. Ma ho anche un modo più intrigante. Prendo il contrabbasso e inizio a fare scale, maggiori minori e modali, a esplorare nuove posizioni senza smettere di cercare l’intonazione migliore. Questo cambiamento di linguaggio mi sintonizza con tutto ciò che è l’articolazione delle frasi, lo sviluppo di un periodo, il senso di quel movimento armonico, melodico e ritmico che diventa narrazione.

Quali sono le particolarità dei tuoi prodotti e della tua tecnica artigianale?
L’originalità, figlia della ricerca. La familiarità, sorella dell’universalità. La precisione, madre di tutte le pratiche.

Come definisci gli artigiani contemporanei?
Portatori malsani di coraggio.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Pagare un riscatto per le tutte le “e” accentate correttamente nei vari perché, sé, né, etc. rapite dai soliti ignoti.

Quali consigli vuoi dare a chi desidera seguire la tua traccia?
Lascia perdere, oppure comprati un paio di dizionari, di quelli grossi e pesanti.

Cosa ti piace di The Jaar?
Il fatto che le persone ti dicono «Bellooo, ne voglio uno anch’iooo!». Meno, il fatto che poi mi tocca regalarglielooo:)